giovedì 17 novembre 2011

Imparerei solo l’inglese / perchè era la lingua di Philipp Dick.

Chiedo a mia madre mentre sono nell’ingresso e mi sto sfilando le scarpe con un’espressione da morta vivente in faccia:
-Hai sentito alla radio?
-No, che cosa?
-Giovedì vengono gli indignados davanti alla Bocconi, che ne pensi?

Fa spallucce.
Gli indignados? Probabilmente da quanto è stanca non ha nemmeno voglia di starmi a sentire.
Mentre sciolgo i bottoni del cappotto e mi sfilo la sciarpa sembra che abbia un momento di lucidità.
-Alla Bocconi?
-Si, alla Bocconi! Rispondo
-E che ci vengono a fare alla Bocconi?
-A protestare contro il Governo Monti mamma.
- Capisco.
Mi fissa per un secondo, pensierosa, e torna a preparare la cena.

Mi congedo, accendo il computer. In pochi minuti faccio do uno sguardo alle ultime notizie e mi informo rispetto al degradante graffito eseguito sui muri dell'Aula Magna di cui oggi ho tanto sentito parlare.
“Nè con Monti, nè con Tremonti. Gli indignados assaltano la Bocconi.”

Esplodo in una fragorosa risata.

Gli indignados.
Davanti alla Bocconi. Ma perfavore.

L’agenda mi dice che giovedì ho lezione dalle 8:45 alle 13.00. Penso che dal momento che partiranno alle 9.30 da Cairoli, magari un salutino quando esco potrei farglielo. Magari sfoggiando il libro di Bilancio che ho indietro dall'anno scorso.

Sono stanca, infreddolita, demoralizzata. Mi sono rotta i cabasisi di tutta questa gente che parla senza cognizione di causa.

Sulla scrivania ho un calendario con segnati i giorni degli esami e un pacchetto di Camel mezzo vuoto. Un poster di National Geographic appeso alla parete. Il libro di Philipp Dick, offertomi gentilmente in prestito dal mio ex ragazzo aperto a faccia in giù sul comodino accanto al letto.

“L'universo non avrà mai fine, perché proprio quando sembra che l'oscurità abbia distrutto ogni cosa, e appare davvero trascendente, i nuovi semi della luce rinascono dall'abisso.”

Non sono figlia di un operaio. Neanche di una commessa. Sono figlia di due medici. Eppure ho frequentato scuole statali. Quando ero piccola, e ancora oggi, con la mia famiglia viaggio all’estero. Andavamo in Spagna, negli Stati Uniti, ovunque. Non ho una borsa firmata. Non l’ho mai avuta, e non me ne frega un cazzo. I miei genitori erano scettici quando ho detto di voler fare lingue al liceo. Hanno preferito seguire il loro istinto e mandarmi ad un tristissimo liceo scientifico bilingue nella periferia di Milano, dove abito. A diciotto anni non mi hanno regalato una macchina. Hanno sempre fatto fatica, a causa dei miei trascorsi a darmi fiducia. Prima volevo fare il medico, poi l'astronauta, poi imparare le lingue, poi la cantante. Ho sempre fantasticato molto e sognato in grande. I miei non mi hanno mai dato ascolto.

Sono sempre riuscita a sopravvivere a scuola: "Quellacheèintelligentemasipuòimpegnaredipiù" della classe. Molti professori mi odiavano per svariati motivi, io odiavo loro cento volte tanto e non risparmiavo il disprezzo per molti dei miei compagni di classe. Allora mi distraevo coi romanzi, con la musica e con qualche disturbo alimentare.

Mi chiedo cosa stiano facendo ora i ragazzi che giovedì parteciperanno alla manifestazione. Magari qualcuno di loro sta leggendo, qualcuno è fuori con gli amici. Qualcuno è in università, probabilmente nella facoltà che ama.

Penso alla mia reazione. Al giorno in cui arrivò l’e-mail che diceva: “Le comunichiamo che Lei è ha superato la selezione per iscriversi all’anno accademico 2008/2009″. Piansi, mi disperai. Anche quella era stata una scelta fatta per accontentare i miei. Per renderli fieri di me. Sapevo che da quel momento in avanti avrei dovuto ingoiare molti rospi e dimostrare alla mia famiglia che ancora una volta ero la figlia perfetta che osannavano con gli amici alle cene.

“Tu lo sai quanto siamo fieri di te vero?" mi disse mio padre.

Risposi con un si non troppo convinto e un sorriso amaro. Sapevo che da li in poi sarebbe stato come scalare un ghiacciaio a mani nude.

E penso ai miei compagni di classe. Quelli dall'ego smisurato. Quelle che "il 27 mi ha rovinato la media". Quelli che non sanno cosa fare alla specialistica perchè dopo 3 anni in questa università non si sono appassionati a nulla. Quelli che sognano Harvard. Quelle che si pentono ogni giorno di aver fatto questa scelta. Quelli che sono incazzati neri perchè questa Università ha comunque molti difetti. Quelli che si spacciano per grandi oratori e politici, ma che si rendono solo ridicoli. Quelle che non vedono l'ora di laurearsi sperando di andare a lavorare da Vuitton.

Insomma,ventenni. Incazzati. Realisti. Ottimisti. Pessimisti. Pieni di sogni, ma con delle prospettive a breve termine alquanto demotivanti.

Che scoppiano a ridere all’improvviso per essersi guardati un attimo di troppo in mezzo al silenzio di una lezione.
E’ la forza dell'ironia che fa si che ogni giorno riusciamo ad avere comunque la speranza che domani ci sarà un posto anche per noi nel mondo. Del dire che ogni università dovrebbe fare in modo che il talento di ognuno venga valorizzato. Che tutti vengano ascoltati. Che tutti, prima o poi, potranno fare ciò che amano, seppur soffrendo e faticando. Che ti faccia smettere di pensare a “se sono meglio di” o “peggio di”. Che non fa si che ci si creino tensioni tra istruzione pubblica e privata. Ognuno deve avere il sacrosanto diritto di poter fare ciò di cui è appassionato. Solo così la nostra società potrà sopravvivere. Senza creare uomini e donne frustrati, demoralizzati, diffidenti.

La Bocconi non è il paradiso, di questo ne sono certa. è una realtà riservata a pochi eletti. E sicuramente non è accessibile (economicamente parlando, a molti). Non è questa la realtà a cui deve aspirare un Paese. Non dovremmo avere, in quanto Bocconiani, "l'orgoglio di casta". Dovremmo invece riflettere sul fatto che di questo passo l'Italia non cambierà mai in modo sostanziale. 

Spesso dico a mio padre.
“Se non altro questa Università mi potrà offrire esperienze all'estero. Io, in questo Paese, non ci resto”



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